Il «divertente di insuccesso»

Roberto Beccantini30 maggio 2019

E’ esplosa all’improvviso, Chelsea-Arsenal, dopo un primo tempo ambiguo ed equilibrato, anche se i blu, proprio loro, si erano aggiudicati gli ultimi spiccioli, quelli che di solito restano in tasca. In attesa di conoscere la scelta di Sarri (e di Abramovich e di qualcun altro, forse), vale la pena di parlare delle sue scelte: Giroud al posto di Higuain (in panca, manco un minuto di mancia) ed Emerson Palmieri al posto di Marcos Alonso. Questo, prezioso. Quello, devastante: il gol rompi-ghiaccio, il rigore procurato, l’assist per il 4-1 di Hazard. Olivier Giroud: il classico sherpa che, per una notte, ha fatto il capo-cordata.

Sono contento per Maurizio e per come si è adattato al calcio della Premier, con fatica e con coraggio, più di quanto – dicono – la Premier non si sia adattata a lui. Empoli, Napoli, Londra: Sarri passava per un «divertente» di insuccesso. Adesso non più: spero.

Senza dimenticare, mi scuso, i giocatori. La finale di Baku è girata attorno ai centravanti, con Giroud che ha fatto per due (Lacazette-Aubameyang); alle difese (di burro, se presa in velocità, quella dei gunners); al duello indiretto fra Hazard e Ozil. Il belga si è svegliato nella ripresa, e ha appeso al muro chiunque gli capitasse a tiro. Al Real già fremono: li capisco. Del tedesco, in compenso, non rammento nemmeno un momento, neppure un frammento: sempre sordo e grigio ai margini dell’ordalia, come un Var qualsiasi senza episodi di cui cibarsi, e per questo annoiato, svogliato.

Ammesso che non sia tutta farina di Zola, e non mi risulta proprio, l’impatto di Sarri ha prodotto, nell’ordine, una finale di Coppa di Lega persa ai rigori con il Manchester City, un terzo posto in campionato e questa Europa League, alzata da imbattuti. Ah, se solo la zarina (Marina Granovskaia) lo amasse come lo ama Adani…

Grazie di (quasi) tutto

Roberto Beccantini26 maggio 2019

E così la musica è finita davvero, la musica di Massimiliano Allegri, cinque anni di Juventus, cinque scudetti, quattro Coppe Italia, due Supercoppe e due finali di Champions. Figlio di chissà quale (libro) letto di Galeone, capace di mollare l’aspirante moglie a un passo dall’altare, capace di troppo, nel bello e nel brutto, nel brioso e nel noioso. Non ricordo un allenatore così vincente e così combattuto: l’epoca della televisione e di Internet ha allargato il bacino dei gusti e dei paragoni, l’era dei passamontagna ha trasformato i barboncini in ringhiosi pitbull.

Uno scudetto e una Supercoppa l’aveva vinta anche con il Milan di Ibra e Nocerino (10 gol su azione). Resta, a mio avviso, un grande allenatore-gestore di ceppo italianista che ha finito per attorcigliarsi sulla sua stessa dottrina (il calcio è semplice, i giocatori e le giocate vengono prima del gioco).

Nessun dubbio che non potesse fare di più. Nessun dubbio che avrebbe potuto fare un po’ meglio. Con quella rosa lì, poi: prima per distacco nel cimitero di elefanti che è diventato il nostro campionato, non però in Europa. Lascia un’eredità duplice se non doppia, ambigua. Partite straordinarie (a Dortmund, con il Barcellona, al Bernabeu, con l’Atletico al ritorno) e partite orribili (a Napoli, al Wanda, nel secondo tempo con l’Ajax).

La società non gli ha dato una mano: gli ha dato tutto. E lui se l’è meritato, felice di adottare un motto che avevano inventato altri: «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta». Potrà sempre dire di aver allenato Cristiano, ha cannato l’ultima stagione, ha azzeccato mosse (Mandzukic ala, Emre Can meta-stopper) e altre ne ha sbagliate (Dybala tuttocampista).

Ha usato male il microfono, ha chiuso con una sconfitta a Marassi: 2-0 per la Sampdoria. Tosato come un marine reduce dal fronte.

Grazie di (quasi) tutto.

Vedove allegre e vedove Allegri

Roberto Beccantini19 maggio 2019

Festa per tutti, alla fine. Per Allegri, applaudito e striscionato. Per Barzagli, idem. Per l’Atalanta, sempre più dentro l’utopia Champions dopo essere uscita dal sogno di coppa. Era la penultima di un campionato che Madama ha chiuso a marzo e timbrato il 20 aprile, contro la Fiorentina, unica vittoria nelle ultime otto.

Gli sgoccioli di stagione sono sempre in balia degli stimoli e dei sentimenti, la Juventus era sazia e distratta da un divorzio che ha spaccato il suo mondo, l’Atalanta a caccia di un traguardo clamoroso. L’autonomia di Cristiano e c. è da tempo di un tempo, e così è stato anche questa volta. Proprio il marziano, in avvio, aveva ciccato l’unica palla-gol di squadra, poi ci hanno pensato il pressing e i pruriti di Zapata e di Ilicic, del Papu e dei gregari.

Il gol numero 100 l’ha firmato Ilicic, il jolly più jolly di Gasperini. La sua assenza, in estate, costò l’ingresso in Europa League. Allegri era commosso, Barzagli idem. Lo Stadium li ha accompagnati con la gratitudine che si deve a chi ha fatto la storia (salvo poi discutere come l’abbiano fatta). Il campo non ha sconvolto i valori del periodo, come non li ha demoliti in altre arene, su e giù per l’Italia. Il pareggio di Mandzukic (toh!) premiava l’orgoglio della Signora senza penalizzare troppo il calo dell’Atalanta: terza, addirittura, dopo il crollo dell’Inter a Napoli. Per irrompere nella miniera più ricca che l’Uefa offre ai suoi affiliati, dovrà però battere domenica il Sassuolo in casa, a Reggio, che è poi la tana del Sassuolo.

Viceversa, mancherà solo la Sampdoria, a Marassi, all’epilogo di un quinquennio che costituisce già materia di sanguigni e sanguinosi dibattiti fra vedove allegre e vedove Allegri. In attesa di scoprire cosa sarà il futuro: se un posto migliore o solo un posto diverso. E per chi.

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